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Opera di Firenze: Recital di Krystian Zimerman

Il programma beethoveniano che il pianista polacco Krystian Zimerman sta portando in tournée in questi mesi è stato presentato anche a Firenze e ci consente alcune riflessioni. Ringraziamo la Dea Fortuna per aver potuto riascoltare il pianista, che notoriamente non si esibisce spesso e che altrettanto notoriamente è abbastanza incline ai forfait, l'ultimo dei quali venerdì 23 maggio, data prevista per questo concerto, rimandato al 27.

La sala grande del teatro dell'Opera di Firenze è uno spazio molto vasto e forse troppo per un pianoforte solo, o per lo meno questa è stata l'impressione dal mio posto d'ascolto da dove pareva che il suono si disperdesse un po' troppo ed anche che arrivasse con qualche alonatura, cosa che potrebbe aver influito sulla scelta dei tempi da parte del pianista.
Comunque un teatro molto affollato (anche se non si è registrato il tutto esaurito) e plaudente è un'ottima risposta ad una serata nel segno del Beethoven più difficile, problematico ed estremo, le tre ultime Sonateper le quali si sono versati fiumi di inchiostro e che forse faremmo bene a ricondurre alla loro essenza musicale.

Zimerman al pari di altri celebri pianisti non resiste al fascino di proporle in un'unica serata, mostrando così ravvicinate le varie facce della stessa medaglia; lui, che è considerato interprete sommo di altri autori, ci dimostra una volta di più quanto, invece, sia vicino alla poetica di Beethoven a cui si avvicina con un percorso assai personale, fatto di pianismo soffuso e mai esibito, forse un po' poco appariscente ma sensibile e morbidissimo. Una composta autoconfessione, un percorso interiore forse non ancora ben metabolizzato (Zimerman legge la musica sul leggio) ma restituito ai fortunati ascoltatori in modo sofferto ed intimo così come pochissime volte abbiamo ascoltato.

Zimerman con la mano destra “canta”, l'esposizione dei temi (basta pensare all'incipit della 109) è di una naturalità commovente, come pure lo straordinario germinare dal nulla della fuga della 110. Si rimane solo affascinati dalla padronanza strumentale ricchissima di malinconiche sfumature, dalla compartecipazione dolorosa (autentica pietas) del pianista ai testi di queste mirabili pagine.

Indimenticabili gli accenti drammatici virili ma mai esibiti, la struggente malinconia dei misteriosi recitativi “cantati” dalla mano destra mentre la sinistra si libra nell'aria quasi ad accompagnarne il suono, opera di un Beethoven ricondotto alle radici più intime e personali del classicismo, come pure è indimenticabile la magia del suono della linea melodica avvolta su se stessa del secondo tempo della 111. E gli enormi applausi del pubblico al termine dei brani sembrano quasi fuori luogo, un riportarci con i piedi per terra dopo un viaggio così profondo nell'animo umano.

 

Fabio Bardelli

 

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